SIR Servizio Informazione Religiosa, 26 agosto 2015
di Maria Chiara Biagioni
È l’auspicio di Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, che non si nasconde i mali della città e delle persone che la vivono: tanto individualismo, solitudine e assenza di responsabilità. E rilancia con una domanda: “Che cosa vogliamo fare di Roma?”. A partire dalle sue periferie, ormai “luoghi dormitorio dove praticamente non ci sono punti di aggregazione”
Per la sua carica di presidente della Comunità di Sant’Egidio,Marco Impagliazzo è diventato nel tempo un cittadino del mondo alle prese con le sfide delle povertà, del dialogo tra i popoli, della risoluzione dei conflitti. Ma Marco Impagliazzo è nato, cresciuto ed ha studiato a Roma. Lo abbiamo intervistato in questa “veste” di cittadino romano, per sapere cosa pensa della sua città dopo i ripetuti scandali di malavita e malaffare che stanno ripetutamente scuotendo la città eterna.
Di che cosa è malata Roma?
“Roma è malata innanzitutto di individualismo, nel senso che mancano le comunità. Mancano le comunità di riferimento che c’erano nel passato. Mancano le reti sociali che hanno fatto la vita dei nostri quartieri e delle nostre periferie fino a 20 anni fa. In questo senso è una malattia di solitudine e di isolamento delle persone. Più che Roma è malata, sono malate le persone di solitudine che vivono in questa città. L’assenza di reti e di comunità – se non quelle della Chiesa e delle parrocchie che però ancora faticano a registrarsi con l’invito di Francesco a uscire – fa sì che molte persone si sentano sole e senza punti di riferimento. E soprattutto le periferie sono diventate ormai luoghi dormitorio dove praticamente non ci sono punti di aggregazione”.
Quando ci fu l’appello di Gassman ad armarsi di scopa per ripulire la città, in pochissimi hanno aderito. Anzi, alcuni lo hanno criticato. Non fu così a Milano dove i cittadini scesero per strada a pulire dopo le devastazioni dei black bloc il primo maggio. Come si configura la tipologia del romano medio di fronte alle sfide che presenta Roma?
“Più che della tipologia del romano medio, direi che effettivamente ci si è abituati ad una città di cui nessuno più ha la responsabilità. Di cui non ci si sente più responsabili, in parte perché è mancata una visione sulla città e la politica non ha saputo esprimere una prospettiva e dire che cosa vogliamo fare di Roma. Non si sono sentiti più discorsi o convegni a questo livello. Non si sono più ascoltate grandi idee su Roma. E quindi da una parte è diventato normale chiedersi: perché devo pulire io la città? E con quale prospettiva? E dall’altra assistiamo ad una deresponsabilizzazione. Naturalmente ognuno di noi ha una colpa nel vedere una città non curata nei suoi tanti aspetti”.
Questa è la situazione. Da dove può nascere un sussulto per ridare dignità ad una città che è la più bella del mondo: sede della cristianità e culla della civiltà romana?
“Non vedo che cosa possa nascere nell’amministrazione e nelle forze politiche che sono alle prese con problemi interni e problemi di gestione del Campidoglio, che poi non interessano i romani della periferia e non interessano i romani in genere. Credo invece che la Chiesa dovrebbe lanciare una grande iniziativa di riflessione sulla città. Cosa vogliamo fare di Roma? Siccome questa iniziativa per almeno 10 anni non è venuta dalla classe politica, forse oggi la Chiesa potrebbe farsi carico di questa iniziativa”.
Ma perché la Chiesa?
“Perché la Chiesa ha un presenza capillare, è presente in tanti parti della città, ne conosce le sofferenze, ma anche le sue prospettive e le sue realtà positive. È rimasta l’unico o uno dei pochissimi luoghi di aggregazione pur con tutti i suoi limiti, anche se fa ancora fatica a mettersi in uscita come ci chiede papa Francesco. Ma è sicuramente una Chiesa che ha toccato tante ferite della città, che ogni giorno si mette in ascolto dei dolori dei suoi abitanti e soprattutto può con uno sguardo di Misericordia – come ci chiede il prossimo anno santo – tirar fuori qualche grande idea dalla sua storia”.
Ma secondo lei la Chiesa di Roma è all’altezza di questo compito?
“A livello di tante parrocchie si fanno cose importanti. Tutto sta ad uscire, perché il territorio è più grande del confine di una parrocchia e uscire significa mettersi negli ambienti dove le persone vivono, lavorano, operano”.
Da romano, che augurio fa alla sua Roma?
“Da romano mi auguro che Roma sia sempre la città dell’accoglienza per tutti coloro che vengono. Roma ha più del 10% dei suoi cittadini che sono immigrati. Mi auguro allora che Roma sia una città dove si impari a vivere insieme, che possa diventare un esempio di come si può vivere pacificamente. E poi mi auguro una città che si prenda cura dei suoi tanti abitanti, soprattutto di quelli che vivono nelle periferie”.
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